Ciao Vincenzo

Noi tifosi della Roma abbiamo vissuto sempre con una consapevolezza
temprata dalla storia: non siamo dei vincenti. Belli, gagliardi e
innamorati sì, ma non vincenti. E come noi tifosi è anche la squadra
che sosteniamo. Spesso esprime il miglior gioco del campionato, compie
mirabili imprese sull’onda dell’entusiasmo, esibisce straordinari
profeti in patria e campioni stranieri affermati o in via di
consacrazione. Ma non vince mai. Qualche volta vince trofei minori,
altre volte, tre in ottant’anni di storia, ha trionfato dopo estenuanti
cavalcate solitarie. I trionfi della Roma si compiono senza respiro, in
apnea per mesi interi, come il nuotatore che rimane sott’acqua il più
possibile, dopo essersi tuffato, per riemergere solo quando ha tutti
gli avversari a debita distanza, quando le bracciate possenti dei
nuotatori più famosi, potenti e ricchi non possono più colmare lo
svantaggio.
E nessuno di questi trionfi è riuscito a toglierci di dosso la triste
idea della nostra incompiutezza, di quella triste ineffabilità del
destino che ci rende raramente secondi e qualche volta terzi, ma molto
più spesso quarti, quinti o sesti. La crisi dell’ottimismo romanista è
un tratto acquisito della nostra coscienza e si perpetra non solo
nell’analisi dei lunghi periodi, come i cicli societari o le stagioni
calcistiche, ma più ormai nelle partite stesse e finanche nelle singole
azioni di gioco. E’ una regola a Roma che le partite o le si vince con
grande vantaggio o comunque meritoriamente e nei tempi regolamentari o
non le si vince. Quasi mai la nostra squadra ha strappato vittorie nei
minuti di recupero e ancor più raramente è accaduto che riuscisse a
stravolgere la trama di un copione già scritto dall’inerzia naturale
delle cose: la consueta sconfitta a Torino, l’umiliante debacle con le
milanesi, il borioso pareggio con la Lazio. Che sia in bene o in male,
la sorpresa non fa parte delle emozioni romaniste.

Eppure.

Eppure c’era uno, l’unico che io ricordi, che ha avuto la follia e
l’ardore, anche se per poco tempo, di affrancarci da questo pessimismo
latente, di ridarci la sorpresa, di svelarci la meraviglia: Vincenzo
Montella.
Nella memoria recente di ognuno di noi rivive il sussulto di quella
rete rigonfia sotto una curva del Delle Alpi, quando il dissacrante
mimo dell’aeroplanino in faccia ai semprevincenti destò fra i tifosi
della Roma la sconvolgente e ignota sensazione di aver stracciato un
canovaccio già scritto e marchiato parola per parola nei loro cuori. Il
pessimismo romanista aveva previsto una triste fine per quella stagione
entusiasmante in cui si era avuta, finalmente, la squadra più forte del
campionato. Il 6 Maggio del 2001 i giocatori della Roma scesero in
campo contro la Juventus con sei punti di vantaggio e poche giornate
dalla fine. Dopo una serie di pareggi e sconfitte il copione del tifoso
romanista quella sera recitava “fine dell’illusione”. Ottomila
masochisti partirono per il Nord con l’ineludibile coscienza della
probabile fine di un sogno infranto ancora prima di cominciare a
correre per farlo realtà, ma che ancora resisteva in forma di fede
irrazionale nella forza morale e di più, fisica!, che dà la comunità
della passione. Passione, che vuol dire sofferenza.
Nei primi dieci minuti di gioco la Juventus segnò due goal: Del Piero e
Zidane. Stesso risultato alla fine del primo tempo. Intervallo: nella
partita e nel copione. Le battute di quella tragedia si coloravano man
mano come nel karaoke le strofe di una canzone. E così avanti, con il
capitano romano Totti sacrificato e triste a osservare la fine dalla
panchina.
Poi un goal: Nakata, il giapponese. La tragedia al suo acme, la
beffarda speranza che riempie i cuori romanisti prima dell’ineluttabile
destino cui si erano inconsciamente votati. Nei minuti di recupero,
mentre la fiamma della salvezza si spegneva da copione, ancora il
giapponese prese palla e scagliò un formidabile tiro dalla distanza
respinto dal goffo portiere Van der Sar. Un rimbalzo, uno scatto felino
in mezzo all’area e una zampata vincente di Montella gonfiò la rete. I
veri tifosi romanisti aspettarono che il guardialinee alzasse la
bandierina per segnalare un fuorigioco, nell’attesa di sorridere
beffardamente della loro infausta sorte. Ma nulla accadde. Fra gli
impietriti semprevincenti con la casacca bianconera sfrecciò la recita
infantile dell’aeroplanino in volo, inconsapevole nelle nuvole; fra i
tifosi romanisti divampò non la gioia ma il fuoco vivo della vittoria
sul reale e tutte quante le sue rappresentazioni.

GOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO

OOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO (a Roma, per questo genere di cose, la L non si usa).
Oggi che Montella ha deciso di smettere di giocare, il destino
capovolto di quella serata torinese, e di quelle romane del goal al
Milan e dei quattro nel derby, torna a incombere invincibile. A
noialtri rimane la memoria.

david

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