Il Nuovo Autoritarismo

Nascosto sotto un velo di seta, multiforme e imperscrutabile, un rigido
autoritarismo serpeggia nelle scuole e nei luoghi di lavoro in Italia.
Il mio amico Marco, non ancora ventenne, è stato assunto in un’agenzia
interinale per fare il postino di raccomandate: sei ore al giorno di
fatica per ottocento euro mensili. Durante la prima settimana ha sempre
terminato di lavorare almeno un’ora oltre l’orario stabilito, ma quando
ha chiesto che gli fossero pagati gli straordinari il suo datore di
lavoro ha risposto che non è prassi e che avrebbe dovuto adeguarsi alla
realtà del paese così come fanno i suoi colleghi.
Marco ha scoperto il mondo del precario al suo primo contatto con il
mondo del lavoro: l’espressione del suo volto mi dimostra che non si è
ancora arreso alla nuova realtà e che sa ancora distinguere con le
esatte coordinate, ed è una rarità, il vero dal falso, ciò che è giusto
da ciò che è ingiusto. Molti dei suoi colleghi non riescono più a
farlo, rassegnati a una logica del lavoro in cui l’assunzione del
valore positivo della competizione soverchia ormai quello della
solidarietà e addirittura quello della legalità.
Per quale motivo, ci si chiede, la protesta dei lavoratori precari non
sfocia in un conflitto sociale aspro e unitario e rimane invece
confinata a singole e sporadiche lotte?
La stessa condizione strutturale della precarietà costringe il
lavoratore ad occuparsi preminentemente della sua situazione
contingente per garantirsi la sopravvivenza giorno dopo giorno; inoltre
il lavoratore precario si muove di luogo in luogo, di posto di lavoro
in posto di lavoro e non ha possibilità di creare rapporti duraturi e
consolidati con i suoi compagni. Una condizione che priva i precari
della possibilità di pensare a una dimensione escatologica e ad
un’utopia di futuro.
Ma io credo che sia anche una ragione prettamente politica a
procrastinare la prospettiva di un conflitto: è la mancanza nella
nostra generazione di una preparazione di pratica e strategia della
politica stessa. Noi ventenni di oggi siamo stati abbandonati da ogni
organizzazione politica autonoma, dai partiti ai sindacati e finanche
dall’associazionismo cattolico. La nostra ignoranza in fatto di
politica è crassa e le nostre posizioni sono ambigue e frammentarie:
non abbiamo mai conosciuto una linea comune e di massa alla quale
rifarci o, meglio, alla quale ribellarci e opporci. I grandi movimenti
politici degli anni ’60 e ’70 in Italia sono nati e si sono sviluppati
in aperto contrasto e in esplicita ribellione ai metodi politici dei
partiti di massa. Oggi, di partiti radicati nella società che dettino
una linea chiara e intimamente ortodossa non ne esistono più e così non
esiste nemmeno l’idea di contrapporsi a questi con un nuovo sistema. In
più la situazione planetaria di una società in cui gli sfruttati e gli
sfruttatori sembrano stare dalla stessa parte e dipendere dall’anonimo
e incontrollabile flusso della finanza ha finito per confonderci la
mente e rendere difficile la distinzione fra i nemici e i compagni.
Nel momento presente, infatti, le relazioni umane nel mondo del lavoro
sono molto rare e avvengono, per via diretta, solamente con chi occupa
il gradino gerarchico superiore, spesso qualcuno più disperato e
oppresso dei suoi stessi sottoposti, costretto a fare la parte dello
sfruttatore per garantirsi il posto.
Quella che percepiamo è una gerarchia meno evidente ma più soverchiante
proprio perché immobile, poco visibile, di cui non riconosciamo le
strategie, di cui non conosciamo le pratiche. Una gerarchia mimetica,
che finge talvolta di non essere cosciente di quello che fa o che finge
di farlo per inerzia, ma che in realtà perpetua la sua sopravvivenza
attraverso la pratica stessa del potere così inteso: invisibile,
imperscrutabile. Eppure, spesso, questa gerarchia tradisce dei
comportamenti tanto patetici ed isterici che, se ci apparissero in
maniera più chiara, rideremmo di noi per non aver scoperto ancora il
modo di distruggerne l’incidenza.
Il preside del liceo Tasso mi accusò di avergli sputato in faccia
dentro un autobus e montò un processo per incriminarmi e impedirmi
l’accesso agli esami di maturità. Fui sconvolto, nella fattispecie,
della perseveranza e della pervicacia con cui portava avanti la sua
tesi che io, grazie a prove documentarie inconfutabili, provvedevo a
smontare. Così come quando, l’anno prima, aveva agitato l’arma del sei
in condotta per punire gli organizzatori di un’occupazione scolastica,
faticavo a capire cosa lo spingesse a un esercizio del potere tanto
spregiudicato e repressivo. Solo un attimo, tra i suoi occhi gelidi e
le sue parole sibilline ho pensato di scorgere una paura: un terrore,
quello di perdere il controllo sulla massa degli studenti. Ma per
l’appunto, fu un attimo.
Al liceo Newton di Roma il preside Rusconi ha punito con qualche sei in
condotta e lavori di utilità pubblica dentro la scuola dei ragazzi che
si erano iscritti su Facebook ad un gruppo denominato “Odio il Newton”.
Ha punito con severità la libertà di espressione e di dissenso e
nessuno ha protestato: non i docenti, non i genitori, che anzi si sono
complimentati con lui. E cosa ha trattenuto gli studenti? Di certo non
la mancanza di coraggio, semmai la mancanza di consapevolezza che è
possibile tirar fuori quel coraggio, perché quegli studenti, come tutti
gli altri, sono privi di organizzazione, di coesione e di strategia di
lotta.
E così modesti dirigenti di provincia si trasformano in vecchi,
inviolabili lupi di mare al cospetto di chi è ignorante di pratica
politica.
Per noi ragazzi di estrazione borghese è stato coniato l’epiteto di
“futura classe dirigente”. Può darsi che, per limiti di età di quella
esistente, un giorno lo saremo, ma sicuramente non ne avremo coscienza.
A differenza di chi dirige oggi, non riconosceremo il nostro potere e
anzi ce ne sentiremo espropriati e rischieremo di abdicare alle nostre
presunte responsabilità in favore di qualcuno, anche di uno soltanto,
più cosciente e scaltro di noi.
Ad oggi le scelte elettorali degli studenti e dei lavoratori precari di
sinistra sembrano improntati a un diffuso antiberlusconismo e ad una
vaga idea di politica economica. Ma dobbiamo riconoscere che dietro
all’isteria degli improperi e delle maledizioni che ogni giorno
rivolgiamo a Berlusconi si cela la consapevolezza che anche una sua
detronizzazione non migliorerebbe di molto la situazione.
Non c’è passione in queste scelte, né speranza; non c’è nemmeno
ribellione, perché non esiste nessuna crocetta proibita dentro l’urna
elettorale, nessun rischio di affrancarsi da una identità politica
comune. E questo non perché i partiti siano tutti uguali, ma perché
pare che non esista nessuna identità condivisa alla quale votarsi o
dalla quale discostarsi se non quella confusa, precaria e dirigista di
chi esercita il potere. Una linea politica tanto invisibile quanto
vincente, tanto confusa quanto dominante.
La stessa che ha avvelenato il mondo del lavoro e che ha oscurato le prospettive di un nostro futuro.

david gallerano

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento